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La Saga dei Vinti al Teatro Manhattan

“Che delizia il Teatro Manhattan!” Potrebbe iniziare così un articolo di inizio XX secolo atto a recensire il piccolissimo “salotto teatrale” che si affaccia discreto sul Rione Monti a Roma. Poco più di trenta posti e un cartellone vario, che si concede il lusso di passare da serate di cabaret a impegnate pagine di storia della drammaturgia fino a prestarsi come vetrina per artisti emergenti. “In queste sere va in scena ‘La Saga dei Vinti’, con Franco Gargìa e Angela Jannuzzi”, continuerebbe entusiasta il nostro articolo primi ’900, “un grande maestro e una talentuosa giovane capaci di render vita alle storie che raccontano con la loro arte”. Adeguata prosecuzione, considerando la densità dei testi e la quasi totale mancanza di elementi scenici ad aiutare gli interpreti. Quattro quadri, divisi in due atti, che passano come un lampo agli occhi del pubblico: con il monologo “Il tabacco fa male” di Anton Čechov, è Gargìa ad accompagnare gli spettatori nell’altra metà della vita. In meno di pochi istanti sul palco c’è solo Ivan Ivanovic Njuchin: con l’abilità di un prestigiatore, il protagonista evoca il suo personaggio e quelli che sono di là dalla sua postazione di conferenziere; evoca la platea che lo ascolta, la moglie e le figlie nate tutte il giorno tredici, la sua casa al numero tredici con le sue tredici finestre, “addirittura sembra di veder morire quell’immaginaria mosca che cattura in una tabacchiera”, chioserebbe il recensore dell’articolo. Che dire dei tre restanti quadri? Bella come un’antica greca, Angela Jannuzzi presta corpo, voce e sentimento al lamento di un’innamorata respinta ne “La porta chiusa”, rielaborazione di un testo di paternità ignota del III secolo avanti Cristo. Seguono “O Surdato ‘e Gaeta (Il Soldato di Gaeta)” di Ferdinando Russo e “Eleonora Fonseca Pimentel in attesa del patibolo” lavoro firmato da Antonello Colli e Delfina Ducci. “Val la pena di far conoscenza del Teatro Manhattan accompagnati dalla coppia Gargìa – Jannuzzi che, pur presentandoci personaggi sconfitti, ci mostrano come dalle percosse della vita possano scaturire esempi di limpide vittorie di fronte alla barbara ignoranza di tempi avversi, intelletti chiusi, inconsapevoli carnefici domestici”. Avrebbe ragione di concludere così la propria recensione il giornalista immaginario che l’ha stesa dall’inizio; leggendola al presente non sembra esserci nulla da aggiungere se non, forse, l’invito a conoscere di persona il Salotto Teatrale della Capitale.

 

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